Studio Legale Carozzi

Cassazione Penale Sez. IV sentenza n, 44890 del 4/2/2021: Distacco e 231

Le principali problematiche affrontate dalla Suprema Corte di Cassazione in tema di "Distacco del lavoratore" e Responsabilità amministrativa dell’ente ex art 25 septies D. Lgs. 231/01.

Il caso al vaglio della Suprema Corte

T.A. e T.G., nella rispettiva qualità di datore di lavoro e dirigente all’interno della società S.T.  s.r.l. (distaccataria), legata da contratto di distacco con la A.M. BS s.r.l. (distaccante), e A.M., invece, quale datore di lavoro della vittima, Z.C., sono stati accusati di avere cagionato a quest’ultimo, per colpa e in violazione delle norme di cui all’art 77 c 4 lett a) D. Lgs. 81/08, lesioni aggravate conseguenti alla caduta occorsa al lavoratore, nel corso della esecuzione di un lavoro avente ad oggetto il montaggio di un palo di supporto di celle telefoniche, facendo uso di un DPI in cattivo stato di manutenzione.

Precisamente nel febbraio 2012, il lavoratore era impegnato nella realizzazione del montaggio di un palo, per la quale si procedeva gradualmente con aggiunta di volta in volta di porzioni di sei metri di lunghezza ciascuna; il montatore saliva sul manufatto con un carrello, al quale era assicurato da cinghie di sicurezza (costituite da una imbragatura e da un moschettone che la univa al carrello).

Il DPI incriminato era costituito dal moschettone, la cui funzione era quella di garantire l’aggancio sicuro del lavoratore al carrello ed era congegnato in modo che la chiusura a vite fosse permanente, non esposta ad aperture di tipo fortuito, a sua volta sostenuta da una molla che faceva scattare la linguetta di chiusura, assicurata dal dado a vite. Una volta salito sul palo, l’uomo era precipitato al suolo.

Dagli accertamenti svolti il giudice procedente ha ritenuto provato che la ghiera di bloccaggio della linguetta di chiusura non fosse efficiente, perché non in grado di scorrere lungo le filettature dell’avvitamento.

Cosicché il cattivo stato manutentivo del presidio non aveva evitato che la linguetta si aprisse accidentalmente provocando lo sfilamento della corda di sostegno e che la molla di chiusura della linguetta, a sua volta predisposta per scongiurare l’apertura accidentale della stessa, prima che potesse operare la ghiera, era inoperante, poiché consentiva che la linguetta di chiusura, invece di chiudersi, rimanesse aperta.

Due le problematiche affrontate dalla Corte di cassazione in questa sentenza che ci interessa porre in evidenza:

  1. il distacco
  2. la responsabilità amministrativa dell’ente ex art 25 septies D. Lgs. 231/01

Il DISTACCO

Relativamente al distacco la difesa della società distaccante A.M. BS s.r.l. ha ritenuto che la decisione della Corte non fosse corretta quanto alla penale responsabilità dell’A.M., in quanto ha ritenuto non vi fosse stata violazione degli obblighi giuridici impostigli quale datore di lavoro distaccante e in assenza di un comportamento alternativo esigibile.

In particolare il datore di lavoro ha rilevato che, nella fase esecutiva del lavoro,

  1. il soggetto tenuto alla vigilanza della effettiva permanenza delle condizioni di sicurezza originariamente predisposte e sull’osservanza delle stesse da parte dei lavoratori è colui che può impartire direttive e dirigere,
  2. l’istruttoria avrebbe dimostrato il corretto assolvimento degli obblighi formativi da parte dell’A.M.: la vittima, per quanto emerge anche nel decisum censurato, era stata adeguatamente formata e preparata, trattandosi, altresì, di operaio esperto;
  3. l’istruttoria avrebbe anche dimostrato la corretta manutenzione del DPI e il mancato funzionamento del presidio non poteva valere a fondare la colpa del datore di lavoro che lo ha fornito, una volta assolti gli obblighi manutentivi imposti dalla scheda tecnica, come dimostrato dal relativo certificato, anche alla luce del fatto che gli stessi operai erano in grado di verificare visivamente la piena funzionalità dei presidi loro consegnati, il datore di lavoro avendo reso disponibile un numero di DPI superiore rispetto al necessario, proprio al fine di consentire l’immediata sostituzione di quelli che fossero risultati malfunzionanti;
  4. era la società distaccataria ad avere il controllo del cantiere e, conseguentemente, ad essere in condizione di, avendone anche l’obbligo giuridico, esercitare la vigilanza sulla corretta esecuzione delle opere.

Oltre a ciò la Corte avrebbe errato sostenendo che la responsabilità del distaccante sarebbe derivata dal solo malfunzionamento del presidio di sicurezza, così estendendo gli ambiti e gli obblighi cautelari oltre il perimetro delle regole descritte nel T.U. 81/08 per due motivi:

  • il malfunzionamento del DPI determinato da un imprevisto in corso di lavorazione e in assenza di segnalazioni avanzate da un esperto lavoratore, che aveva a sua disposizione un moschettone di riserva, non può essere addebitato al datore di lavoro che finirebbe, così, per rispondere anche di condotte imprudenti del lavoratore;
  • l’obbligo di vigilanza in quella fase non era concretamente esigibile dal distaccante in quella fase della lavorazione.

Il pensiero della Suprema Corte

Dapprima la Corte enuncia e riassume i principi che stanno alla base del distacco, affermando che sullo specifico tema, la giurisprudenza ha già da tempo chiarito che – in caso di distacco di un lavoratore da un’impresa a un’altra – i relativi obblighi gravano sia sul datore di lavoro che ha disposto il distacco, sia sul beneficiario della prestazione, tenuto a garantire la sicurezza dell’ambiente di lavoro nel cui ambito la stessa viene eseguita (cfr. sez. 4 n. 37079 del 24/6/2008, Ansa/ani, Rv. 241021).

Tali principi sono stati anche ulteriormente calibrati, soprattutto alla luce della modifica legislativa introdotta dall’art. 3 c. 6, d.lgs. 81/08 che ha espressamente disciplinato l’ipotesi del distacco del lavoratore ai sensi dell’art. 30 del d.lgs. 276/03, prevedendo che, in tal caso, “tutti gli obblighi di prevenzione e protezione sono a carico del distaccatario, fatto salvo l’obbligo a carico del distaccante di informare e formare il lavoratore sui rischi tipici generalmente connessi allo svolgimento delle mansioni per le quali egli viene distaccato“.

Si è così confermato che sono a carico del distaccatario tutti gli obblighi di prevenzione e protezione, fatta eccezione per l’obbligo di informare e formare il lavoratore sui rischi tipici che restano a carico del datore di lavoro distaccante (cfr. sez. 4, n. 31300 del 19/4/2013, Farinotti ed altro, Rv. 256397).

In quella sede, la Corte di legittimità ha precisato che la ripartizione operata dal legislatore tiene conto della reale allocazione dei poteri di direzione e di organizzazione dell’ambiente di lavoro e rende inattuale il tradizionale riferimento alle note premesse normative (quali la clausola generale di cui all’art. 2087 cod. civ.) per delineare e delimitare estensione e contenuto della posizione di garanzia del distaccante, soprattutto con riferimento alla fase della esecuzione del contratto (per quella antecedente valendo la consueta griglia normativa).

Il distaccante, prima che abbia corso il distacco, ha la titolarità degli obblighi tipici della posizione datoriale; in quell’area in cui i poteri direttivi si attenuano per la sempre maggiore incombenza degli analoghi poteri del distaccatario quegli obblighi assumono i contenuti resi possibili dalla particolarità di tale vicenda. Nel momento in cui trova esecuzione la prestazione del lavoratore distaccato, il datore di lavoro distaccatario assume tutti gli obblighi prevenzionistici, eccezion fatta per quello di informazione e di formazione sui rischi tipici generalmente connessi allo svolgimento delle mansioni per le quali vi è il distacco.

La Corte dopo aver ribadito in linea teorica quale sia il riparto degli obblighi derivanti dal contratto di distacco tra distaccante e distaccatario si sofferma sulla posizione del datore di lavoro distaccante nel caso concreto affermando che la dotazione dei presidi funzionanti e la perdurante manutenzione di essi discende dagli obblighi datoriali che precedono la fase esecutiva, stante la strumentalità di quei presidi rispetto alla lavorazione cui deve attendere il lavoratore distaccato.

Pertanto, la corretta funzionalità dei presidi dei quali il lavoratore è stato dotato dalla distaccante deve essere garantita per tutta la durata della lavorazione, il che implica l’adempimento di obblighi di vigilanza sul corretto funzionamento dei presidi stessi e sulla loro manutenzione, tenuto conto delle modalità e della frequenza del loro impiego.

Va, infine, rilevato che eventuali accordi contrari in deroga alla previsione sarebbero privi di efficacia, appartenendo le norme antinfortunistiche al diritto pubblico ed essendo le stesse inderogabili in forza di atti privati (cfr. sez. 4 n. 10043 del 8/7/1994, Vigani ed altro, Rv. 200149).

RESPONSABILITA’ DELL’ENTE ex D. Lgs. 231/01

Per la difesa della società distaccante (datrice di lavoro dell’infortunato) la Corte d’appello, avrebbe errato per i seguenti motivi:

  1. essendosi limitata a ritenere che l’omessa predisposizione del presidio di sicurezza idoneo avesse fatto conseguire alla società un risparmio di spesa, senza tuttavia verificare il collegamento finalistico tra il reato e il risultato ovvero l’effettiva esistenza dell’interesse;
  2. non avendo inquadrato la condotta illecita nell’alveo di una generale e sistematica politica imprenditoriale che fosse connotata da una costante violazione dei sistemi prevenzionistici.

Il pensiero della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione ha ritenuto di non poter accogliere i rilievi promossi dalla difesa della distaccante.

Relativamente alla prima critica mossa dalla difesa della distaccante la Corte ribadisce anzitutto un principio generale: relativamente alla responsabilità da reato degli enti trattasi di un modello di responsabilità che, coniugando i tratti dell’ordinamento penale e di quello amministrativo, ha finito con il configurare un tertium genus di responsabilità, compatibile con i principi costituzionali di responsabilità per fatto proprio e di colpevolezza (cfr. Sezioni Unite n. 38343/2014, Espenhahn e altri, cit., Rv. 261112).


“ … Quanto ai criteri d’imputazione oggettiva della responsabilità dell’ente (l’interesse o il vantaggio di cui all’art. 5 del d. lgs. 231 del 2001), essi sono alternativi e concorrenti tra loro, in quanto il primo esprime una valutazione teleologica del reato, apprezzabile ex ante, cioè al momento della commissione del fatto e secondo un metro di giudizio marcatamente soggettivo; il secondo ha, invece, una connotazione essenzialmente oggettiva, come tale valutabile ex post, sulla base degli effetti concretamente derivati dalla realizzazione dell’illecito (cfr. Sezioni Unite n. 38343 del 24/04/22014, Espenhahn e altri, Rv. 261113).
Inoltre afferma che i criteri di imputazione oggettiva devono essere riferiti alla condotta del soggetto agente e non all’evento, coerentemente alla diversa conformazione dell’illecito, essendo possibile che l’agente violi consapevolmente la cautela, o addirittura preveda l’evento che ne può derivare, pur senza volerlo, per rispondere a istanze funzionali e a strategie dell’ente. A maggior ragione, vi è perfetta compatibilità tra inosservanza della prescrizione cautelare e esito vantaggioso per l’ente (cfr., in motivazione, Sez. U. n. 
38343 del 2014, cit.) … La casistica ha offerto, poi, alla giurisprudenza di legittimità l’occasione per calibrare, di volta in volta, il significato dei due concetti alternativamente espressivi del criterio d’imputazione oggettiva di cui si discute: si è così affermato, per esempio, che esso può essere ravvisato nel risparmio di risorse economiche conseguente alla mancata predisposizione dei procedimenti e dei presidi di sicurezza; nell’incremento economico conseguente all’incremento della produttività non ostacolata dal rispetto della normativa prevenzionale (sez. 4 n. 31210 del 2016, Merlino e altro; n. 43656 del 2019, Compagnia Progetti e Costruzioni); nel risparmio sui costi di consulenza, sugli interventi strumentali, sulle attività di formazione e informazione del personale (cfr., in motivazione, sez. 4 n. 18073 del 2015, Bartoloni ed altri); o, ancora, nella velocizzazione degli interventi di manutenzione e di risparmio sul materiale …”

Relativamente alla seconda critica avanzata dalla distaccante la Corte afferma che “ … Il principio per il quale l’interesse o il vantaggio devono essere rapportati, per quanto riguarda i reati colposi, alla condotta dell’agente, anziché all’evento del reato, è il precipitato di quella che è subito apparsa la preoccupazione dell’interprete: scongiurare una lettura della norma di cui all’art. 25-septies cit. per la quale l’affermazione della responsabilità dell’ente consegue indefettibilmente, una volta dimostrati il reato presupposto e il rapporto di immedesimazione organica dell’agente. Per questo, in alcune pronunce, si è cercato di rinvenire un criterio moderatore di tali conseguenze e si è ritenuto di rinvenirlo nel carattere sistematico della violazione.
A tale interpretazione sembra fare riferimento parte ricorrente, ma la lettura proposta non può essere recepita per più ordini di motivi, già esposti nel precedente sopra richiamato e in questa sede condiviso. Innanzitutto, la sistematicità della violazione non rileva quale elemento della fattispecie tipica dell’illecito dell’ente: l’art. 25-septies cit. non richiede la natura sistematica delle violazioni alla normativa antinfortunistica per la configurabilità della responsabilità dell’ente derivante dai reati colposi ivi contemplati. Tale connotato, inoltre, non è imposto dalla necessità, sopra già tratteggiata, di rinvenire un collegamento tra l’azione umana e la responsabilità dell’ente che renda questa compatibile con il principio di colpevolezza e consenta, quindi, di escludere correttamente dal novero delle condotte a tal fine rilevanti quelle sì sostenute da coscienza e volontà, ma non anche dall’elemento della “intenzionalità”, come sopra definita. Sul punto, pare utile un richiamo alla giurisprudenza di questa sezione, per precisare che l’interesse dell’ente “ricorre quando la persona fisica, pur non volendo il verificarsi dell’evento morte o lesioni del lavoratore, ha consapevolmente agito allo scopo di far conseguire un’utilità alla persona giuridica; ciò accade, per esempio, quando la mancata adozione delle cautele antinfortunistiche risulti essere l’esito, non di una semplice sottovalutazione dei rischi o di una cattiva considerazione delle misure di prevenzione necessarie, ma di una scelta finalisticamente orientata a risparmiare sui costi d’impresa: pur non volendo (quale opzione dolosa) il verificarsi dell’infortunio in danno del lavoratore, l’autore del reato ha consapevolmente violato la normativa cautelare allo scopo di soddisfare un interesse dell’ente (ad esempio, far ottenere alla società un risparmio sui costi in materia di prevenzione)” (cfr., in motivazione, sez. 4 n.
31210 del 19/5/2016, Merlino).
Sotto altro profilo, va pure rilevato che, se il criterio di imputazione di cui si discute ha lo scopo di assicurare che l’ente non risponda in virtù del mero rapporto di immedesimazione organica, assicurando che la persona fisica abbia agito nel suo interesse e non solo approfittando della posizione in esso ricoperta, è eccentrico rispetto allo spirito della legge ritenere irrilevanti tutte quelle condotte, pur sorrette dalla intenzionalità, ma, in quanto episodiche e occasionali, non espressive di una politica aziendale di sistematica violazione delle regole cautelari.
Il carattere della sistematicità, peraltro, presenta in sé innegabili connotati di genericità: la ripetizione di più condotte, poste in essere in violazione di regole cautelari, potrebbe non essere ancora espressiva di un modo di essere dell’organizzazione e, quindi, di una sistematicità nell’atteggiamento anti doveroso. D’altro canto, l’innegabile quoziente di genericità del concetto non consente neppure di stabilire, in termini sufficientemente precisi, quali comportamenti rilevino a tal fine (identici; analoghi; diversi, ma pur sempre consistenti in violazioni delle regole anti infortunistiche).
Tutto ciò, nel completo silenzio della legge sul punto e senza considerare che l’atteggiamento finalistico dell’agente fa parte della sua interna deliberazione e, come tale, esso va investigato, eventualmente anche alla stregua di una sistematicità dei comportamenti anti doverosi, che certamente sono espressivi di un modo di essere della organizzazione e che possono aver influenzato la determinazione del soggetto. Il che riporta l’intero discorso sul piano prettamente probatorio, al quale tale connotato per l’appunto appartiene, quale possibile indizio della esistenza dell’elemento finalistico della condotta dell’agente, al tempo stesso scongiurando il rischio di far coincidere un modo di essere dell’impresa con l’atteggiamento soggettivo proprio della persona fisica. Diversa è, infatti, la rilevanza di tale connotato in termini di elemento probatorio della esistenza di una direzione finalistica della condotta del reo: il vantaggio, come sopra già chiarito, è misurabile ex post e rileva ex se, laddove la prova dell’interesse, parametro eminentemente finalistico e da valutarsi ex ante, può certamente ricavarsi dalla dimostrata tendenza dell’ente alla trasgressione delle regole antinfortunistiche, finalizzata al contenimento dei costi di produzione o all’incremento dei profitti.

Nel caso all’esame, può dirsi accertato che la società distaccante aveva dotato il lavoratore di un presidio di prevenzione malfunzionante e, come evidenziato dai giudici del merito, quel presidio era essenziale per lo stesso svolgimento del lavoro da eseguirsi in distacco. La condotta dell’agente si colloca all’interno del contesto lavorativo della società, nella fase della esecuzione di un contratto che non esonerava l’agente medesimo dal costante controllo della perdurante funzionalità di un così importante presidio di sicurezza. Al di là di una certa approssimazione rinvenibile sulla qualificazione giuridica del presupposto oggettivo …  deve concludersi nel senso che la Corte territoriale ha esaminato il criterio di imputazione oggettivo previsto dall’art. 5 d. lgs 231 del 2001 e lo ha individuato proprio nel risparmio di spesa derivante dalla mancata predisposizione di un presidio atto al suo scopo e dalla omessa manutenzione o sostituzione di esso, elemento questo idoneo a ricollegare, con giudizio ex post, la condotta dell’A.M. all’ente ricorrente …”

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